Domenica si terranno i funerali di Vittorio Arrigoni. A colpirmi particolarmente non la sua morte, bensì la sua vita, di cui la fine tremenda è stata parte inseparabile, tragicamente integrante. La vita di una persona capace di dare concretezza, fino alle estreme conseguenze, a parole che per molti di noi restano suoni a perdere. Nel caso di Arrigoni quell’Utopia contenuto nel modo in cui amava farsi chiamare non stava solo nei fini, ma anche, ed è questo che arriva direttamente a noi con un forte senso di verità, nei modi. Sazi come siamo, fatichiamo, persi in mille pigrizie ed irretiti da compromessi così quotidiani da divenire impercettibili, a dare spessore alle idee, anche a quelle più nobili – se potessi mangiare un’idea , cantava Giorgio Gaber – Vittorio Arrigoni l’ha fatto, coniugando umanità e rigore politico, utopia e impegno diretto, dimostrando, il che accade raramente, come le pratiche non-violente non siano solo ubbie di qualche anima bella, ma strumento di cambiamento reale ed effice che genera azioni capaci di spostare le montagne e far davvero crescere le coscienze. Lo voglio ricordare con le parole di sua madre, donna di umanità, dignità ed intelligenza altrettanto non comuni. Tratte da una lettera al Manifesto. STAY HUMAN.
VITTORIO NON E’ MAI STATO COSI’ VIVO COME ORA
DI EGIDIA BERETTA ARRIGONI .
Domenica, 17 aprile 2011
Bisogna morire per diventare un eroe, per avere la prima pagina dei giornali, per avere le tv fuori di casa, bisogna morire per restare umani? Mi torna alla mente il Vittorio del Natale 2005, imprigionato nel carcere dell’aeroporto Ben Gurion, le cicatrici dei manettoni che gli hanno segato i polsi, i contatti negati con il consolato, il processo farsa. E la Pasqua dello stesso anno quando, alla frontiera giordana subito dopo il ponte di Allenbay, la polizia israeliana lo bloccò per impedirgli di entrare in Israele, lo caricò su un bus e in sette, una era una poliziotta, lo picchiarono «con arte», senza lasciare segni esteriori, da veri professionisti qual sono, scaraventandolo poi a terra e lanciandogli sul viso, come ultimo sfregio, i capelli strappatagli con i loro potenti anfibi.
Vittorio era un indesiderato in Israele. Troppo sovversivo, per aver manifestato con l’amico Gabriele l’anno prima con le donne e gli uomini nel villaggio di Budrus contro il muro della vergogna, insegnando e cantando insieme il nostro più bel canto partigiano: «O bella ciao, ciao…»
Non vidi allora televisioni, nemmeno quando, nell’autunno 2008, un commando assalì il peschereccio al largo di Rafah, in acque palestinesi e Vittorio fu rinchiuso a Ramle e poi rispedito a casa in tuta e ciabatte. Certo, ora non posso che ringraziare la stampa e la tv che ci hanno avvicinato con garbo, che hanno «presidiato» la nostra casa con riguardo, senza eccessi e mi hanno dato l’occasione per parlare di Vittorio e delle sue scelte ideali.
Questo figlio perduto, ma così vivo come forse non lo è stato mai, che come il seme che nella terra marcisce e muore, darà frutti rigogliosi. Lo vedo e lo sento già dalle parole degli amici, soprattutto dei giovani, alcuni vicini, altri lontanissimi che attraverso Vittorio hanno conosciuto e capito, tanto più ora, come si può dare un senso ad «Utopia», come la sete di giustizia e di pace, la fratellanza e la solidarietà abbiano ancora cittadinanza e che, come diceva Vittorio, «la Palestina può anche essere fuori dell’uscio di casa». Eravamo lontani con Vittorio, ma più che mai vicini. Come ora, con la sua presenza viva che ingigantisce di ora in ora, come un vento che da Gaza, dal suo amato mar Mediterraneo, soffiando impetuoso ci consegni le sue speranze e il suo amore per i senza voce, per i deboli, per gli oppressi, passandoci il testimone. Restiamo umani.